La mia avventura con l’autismo è cominciata quando il pediatra di mio figlio di due anni, ha notato un ritardo nello sviluppo del linguaggio.
“Dice poche parale per la sua età, consiglio di fare un accertamento”.
Ho deciso di portalo da una dottoressa, una neuropsichiatra che mi era stata consigliata per casi di questo tipo. Mi sono sorpreso nel vedere come riusciva ad interagire con lui, a farlo sentire a suo agio e a giocare; per pochi minuti, 55 per la precisione, si è accesa la speranza che con poche sedute si sarebbero potuti risolvere i suoi problemi; poi il mondo mi è crollato addosso.
“Ho riscontrato dei comportamenti che rientrano nello spettro autistico; è necessario procedere con una valutazione per confermare questa ipotesi”.
Quando si viene colpiti dalla notizia dell’autismo ci si sente smarriti, disorientati; nella mente si forma immediatamente qualche immagine offuscata di un film che ricordiamo di aver visto, o forse un articolo letto chissà quando. Si conosce l’argomento solo per luoghi comuni subito ci poniamo mille interrogativi sul futuro: cosa succederà? Come farò? Come sarà? Così un senso di inquietudine inizia a farsi strada dentro di noi.
La prima reazione è quella di voler sistemare le cose il prima possibile; vedi l’autismo come una malattia e parti alla ricerca di una soluzione per eliminare il problema; solo che purtroppo non si può; esistono dei trattamenti che permettono di mitigare i sintomi, che possono aiutare gli autistici a inserirsi nella società, ma l’autismo non se ne andrà, farà sempre parte di lui.
Quando ti rendi conto che il bambino che hai davanti è lo stesso a cui hai sempre voluto bene; lo stesso che hai sempre amato anche quando non capivi perché si arrabbiava, perché si isolava, perché non ti parlava; allora qualcosa cambia. Realizzi che adesso hai la possibilità di stringere un legame, di entrare in contatto con lui, non cercando di cambiarlo, ma provando a cambiare te stesso.
